SCIENZA

Fullerene: 50 anni di una sfera che ispira il futuro

Sono passati cinquant’anni da quel settembre del 1985, quando tre scienziati — Harold Kroto, Richard Smalley e Robert Curl — si riunirono con un obiettivo ben preciso: comprendere la natura di alcune particolari molecole di carbonio che erano state osservate nelle atmosfere delle stelle giganti rosse, come Betelgeuse nella costellazione di Orione o Antares in quella dello Scorpione. Volevano ricreare in laboratorio quelle condizioni estreme, e per farlo usarono un’apparecchiatura capace di colpire la grafite con impulsi laser ad altissima energia. Il calore generato dalla collisione era tale da vaporizzare il carbonio, creando una nube incandescente che, raffreddandosi rapidamente, formava piccoli aggregati di atomi di carbonio.

Quello che, invece, evidenziarono nei risultati dei loro esperimenti fu davvero insolito. Lo spettrometro di massa, uno strumento capace di scoprire quali atomi e molecole sono presenti in un determinato campione e quale sia il loro peso, mostrava un segnale preciso, che corrispondeva a molecole formate da esattamente sessanta atomi di carbonio. Non solo erano perfettamente simmetriche, ma sembravano quasi indistruttibili: non reagivano con altre sostanze e in esse ogni atomo di carbonio aveva già formato il numero massimo di legami possibili (ovvero 4). Per capire come fossero disposte, Smalley costruì un modellino con carta e nastro adesivo e, dopo qualche tentativo, apparve una sfera composta da dodici pentagoni e venti esagoni, che assomigliava proprio ad un pallone da calcio. La struttura tridimensionale ricordava le cupole geodetiche progettate dall’architetto Buckminster Fuller, ed è per questo che venne assegnato il nome “buckminsterfullerene”, più comunemente detto fullerene o “buckyball”.

Una scoperta tanto inattesa quanto straordinaria, dal momento che per la prima volta si dimostrava l’esistenza di una terza forma pura del carbonio, dopo la grafite e il diamante. Questa scoperta non passò inosservata ed infatti, poco più di dieci anni dopo, nel 1996 il Premio Nobel per la Chimica fu assegnato proprio agli scienziati Kroto, Curl e Smalley “per la scoperta dei fullereni”. Nella cerimonia, il Comitato Nobel sottolineò come questa nuova forma del carbonio avesse trasformato il modo di concepire la chimica di questo elemento e aperto strade inesplorate nella scienza dei materiali. Kroto, nel suo discorso, ricordò che tutto era nato dalla curiosità di capire un fenomeno astronomico, mentre Smalley mise in evidenza le prospettive tecnologiche, soprattutto legate ai nanotubi di carbonio, “cugini” cilindrici dei fullereni.

Negli anni successivi, i fullereni hanno trovato applicazioni in numerosi ambiti. Ad esempio, in medicina, i ricercatori hanno scoperto che possono accogliere all’interno della propria struttura molecole terapeutiche e trasportarle fino al punto esatto in cui è necessaria la loro azione. Nel settore dell’energia, derivati come il PCBM — un fullerene modificato per migliorarne la solubilità e la lavorabilità — sono impiegati come accettori di elettroni nelle celle solari organiche, aumentando efficienza e durata. Lo dimostra uno studio di Heeger e collaboratori pubblicato su Advanced Materials nel 2011. Nella scienza dei materiali, invece, i fullereni sono stati incorporati in polimeri e rivestimenti per migliorarne la resistenza e la stabilità termica. Inoltre, grazie alla loro forma sferica, possono anche agire come microscopici lubrificanti, riducendo l’attrito tra le superfici. 

Nonostante queste potenzialità, i fullereni restano materiali relativamente costosi e la loro produzione su larga scala è limitata. Oggi la ricerca si muove rapidamente per sfruttare al massimo le proprietà di questa classe di molecole. Nel campo della medicina di precisione, per esempio, si stanno sviluppando fullereni “funzionalizzati” cioè capaci di legarsi in modo selettivo a cellule tumorali, rilasciando il farmaco soltanto dove necessario. Nel settore dell’energia, invece, si sta sperimentando come alcuni nuovi derivati (come il is-PCBM) possano essere integrati nelle celle solari organiche con l’obiettivo di aumentarne l’efficienza. Anche il mondo delle batterie guarda con interesse ai fullereni: combinati con metalli di transizione, potrebbero aumentare la durata e la capacità di batterie al litio e sodio.

Ma perché parlare della scoperta e delle proprietà di queste interessanti molecole anche a scuola? Introdurre la scoperta dei fullereni consente di affrontare temi emergenti come le nanotecnologie e le scienze dei materiali, che hanno un impatto via via crescente anche nella nostra quotidianità. In questo articolo in lingua inglese a cura dell’American Chemical Society si racconta la scoperta del fullerene. In questo video, sempre in lingua inglese, edito da BytesizeScience in una manciata di minuti si introducono le nanotecnologie e nanomateriali, prendendo in rassegna i fullereni e le loro applicazioni in campo medico. E se siete interessati a realizzare un’attività pratica con i vostri studenti, perché non provare a costruire proprio una molecola di fullerene? Trovate in questo tutorial tutte le indicazioni!

Oggi, grazie ai continui passi in avanti della ricerca, il fullerene è passato dall’essere una scoperta sorprendente a diventare un elemento chiave di tecnologie innovative, che in parte possono essere esplorate anche in classe!
 

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